martedì 30 luglio 2013

Daje Patrì

Considerando le volte che sono tornato a casa a piedi e ubriaco, pensavo per l'ennesima volta, che al posto di Federico, poteva esserci Cirello. E probabilmente il 99% delle (poche) persone che leggono queste pagine (da lastampa.it).

“Hanno ucciso il mio Federico
e rimetteranno la divisa
senza nemmeno pentirsi”


ANSA
Calamite sul frigorifero, una vetrinetta strapiena di oggetti, fotografie, coppe sportive e in un angolo, vicino al grande tavolo, un televisore. Rigorosamente non al plasma. Una casa normale, come tante. A cui manca una sola cosa, da 8 anni: un ragazzo. Si chiamava Federico Aldrovandi, aveva 25 anni, è stato ucciso. E’ diventato un simbolo. Ma per Patrizia Moretti, la madre era ed è soprattutto un figlio, il suo, quello che manca a questa casa.  

Oggi sarà un giorno speciale per la famiglia Aldrovandi. Questa mattina esce da carcere Paolo Forlani, l’ultimo dei 4 poliziotti condannati in via definitiva per aver ucciso Federico. Luca Pollastri, l’altro detenuto, è uscito sabato. Monica Segatto ieri ha terminato il suo periodo di domiciliari. Resta Enzo Pontani, ai domiciliari. Verrà presto liberato: ha solo iniziato la detenzione dopo gli altri. Poi, tutti e quattro, avranno finito di scontare la loro pena: 6 mesi. Loro, i poliziotti, dicono che è un’ingiustizia: gli unici in Italia, da oltre trent’anni, ad aver scontato per intero una pena per omicidio colposo (3 anni se li è mangiati l’indulto).

Lei, Patrizia Moretti, riflette: «Sei mesi per aver ucciso qualcuno è sbagliato, ingiusto, doloroso e soprattutto inaccettabile - dice - E non perché sei mesi siano pochi, anche se sarebbe ipocrita dire che non lo siano. Ma perché sei mesi non sono bastati. Se il carcere dev’essere riabilitativo, come io credo, ebbene per queste persone non lo è stato: non si sono mai pentiti, non hanno mai avuto una parola di dispiacere per la morte di Federico. Mai».

Patrizia Moretti, la sua famiglia, gli amici, hanno combattuto 8 anni per avere ragione. E domani tutto questo sarà finito. Almeno penalmente. La paura più grande, oggi, per Patrizia è che quei 4 poliziotti tornino a vestire la divisa. Cosa possibilissima, quasi automatica. La commissione di disciplina ha già emesso il suo verdetto: sei mesi di sospensione. «A fine anno, tutti torneranno in servizio. Quattro poliziotti, armati, condannati per omicidio, torneranno per le strade con un buffetto e senza che nemmeno si siano resi conto di quello che hanno fatto».

Patrizia era preparata a questo giorno. «Sapevamo che sarebbe arrivato». Ma è amaro lo stesso. «E’ la cultura delle istituzioni che deve cambiare. Questi poliziotti sono stati protetti, è evidente. E questo mi fa male. Quel che invece mi rassicura è che l’opinione pubblica ha reagito. Anche se la giustizia ha fatto il suo corso, è la condanna dell’opinione pubblica ciò che più conta. Solo così riusciremo a cambiare la cultura nelle istituzioni».

La cultura e anche qualcos’altro. Oggi l’ultimo poliziotto che ha ucciso Federico uscirà dal carcere. Dopo sei mesi. Pena scontata. Patrizia sa che potrebbe riaccadere. E allora l’opinione pubblica non basta: «Chi può, istituisca il reato di tortura. Chi non lo vorrebbe istituire ha una sola ragione: evidentemente lo perpetra. E questo non è più accettabile».

lunedì 29 luglio 2013

There's nothing you can say to make me change my mind.

[Così, dopo più di dieci anni, i Radiohead all'arena di Verona (Kid A/Amnesiac Tour - 2001) non possono far altro che scendere ed accomodarsi sul gradino di mezzo del mio personalissimo podio.]


La sensazione è di aver partecipato ad una cosa irripetibile, di quelle che racconterò ai miei nipoti, se mai ne avrò. 
Gli dirò di esser stato più volte sull’orlo del pianto, con l’orgoglio dell’uomo a petto nudo che si tampona gli occhi tra la folla con la scusa del sudore (almeno qui, qui e qui, anche se il video non renderà mai giustizia alla realtà). Dirò che non ho potuto godermelo anni prima, solo perché la data di nascita non si sceglie. E che per lo stesso motivo non c’erano Mason né Gilmour, lì sopra quel muro che si costruiva pian piano insieme ai fantasmi di Pink, prima di crollare.
“Nonno, ma tu non eri di quelli che volevano un palco scarno, con solo gli strumenti protagonisti?”, “Sì bimbi, l’ho detto, ma pensate davvero che nonno sia così stolto?”.
Racconterò di come non sia stata la stanchezza a svuotarmi e nemmeno il caldo. Ma la musica. Per una volta slegata dai ricordi di donne e sbronze, amici e risate, viaggi e pianti. Solo quel doppio cd consumato dal laser e mandato in loop per l’ennesima volta sin dal mattino.
Per qualcuno non è cinema, per altri è una delle più sconvolgenti esperienze vissute davanti lo schermo”, per qualche motivo m’è venuto in mente Mereghetti (nella recensione di Blue -  Dereck Jarman, 1993), mentre pedalavo nella notte verso casa, con la pelle ancora eccitata e il vento caldo a tapparmi la bocca, in preda alla morbidezza di Goodbye Cruel World. Nel silenzio della Roma ormai già in agosto.

Continuerò ancora per molto e tra una canzone ed un'altra, dirò pure che l'unica birra in vendita era l'odiatissima Ceres, che c'era l'unità cinofila all'ingresso e che il maiale volante si era trasformato in cinghiale, diventando nero e con un bel paio di zanne. 
Poi, di fronte all'incredulità, gli dirò che no, ero sincero: c'ero davvero. E che era andata proprio così.

giovedì 25 luglio 2013

Soltanto addio

Passare la notte alla guida in solitaria di un furgone senza avere con sè la consueta scorta di cd (non preparati causa perenne procastinazione), né ipod (tuttora a spasso nei meandri della stanza, spero), al di là della solita, inoppugnabile, verità, ossia che la radio - al netto di rarissime eccezioni perlopiù locali - è musicalmente inascoltabile, fa venire in mente giusto un paio di considerazioni:

- "Era d'estate" di Sergio Endrigo (grazie, Radio 2) è sempre un capolavoro di verità.

- Se incontro Malika Ayane per strada, la uso come sacco, senza guantoni.

martedì 9 luglio 2013

Davvero non so

Ci sono le volte in cui dubbi assaltano in massa, minano certezze e riscoprono rancori. E spesso accade in estate, quando ti domandi perché diavolo i romani non abbiano fatto Roma non dico a Ostia ma quantomeno ad Ostia Antica. E che sarebbe stato comunque bello andarci nelle scampagnate del fine settimana, da ovest verso est però, non viceversa.

Le volte in cui continui a chiederti perché il rosmarino non riesca mai a crescere in un vaso, ma che se ne stia lì, tirando avanti fino al prossimo arrosto, a sopravvivere come gli animali in gabbia ignoranti del suicidio.
Ci mancava pure l'errore di piantare un piccolo di basilico nello stesso vaso della salvia, nota (mi disse in seguito l'anche agronomo Mr Gallit) divoratrice di energie altrui. Così, mi ritrovo il giovane compagno del pomodoro fresco con le foglioline sempre più piccole, di un verde deperito ma buone lo stesso, in preda ad una sorta di sortilegio alla Dorian Gray, col basilico nel ruolo del dipinto.

E poi una marea di voglie che solo un bagno dove dico io - e con le persone giuste – potrebbe placare. Con i piedi a disegnar galassie sulla sabbia, gli sguardi persi verso orizzonti laidi e le mani pure. Con la sempiterna menzogna che con l'età, al netto di tutte le perdite, si guadagni comunque in fascino.

Allora sono qui, a petto nudo col silenzio post prandiale del sole che filtra dalla tapparella nel quartiere dei condottieri, a pensare al Capitano Benjamin L. Willard nel risveglio di Saigon.

E come lui mi alzo, guardo fuori ma invece di finire lo scolo di whiskey avanzato dalla sera prima, metto un pezzo. Forse, magari, Mick e soci sapranno dirmi cosa fare.

mercoledì 3 luglio 2013

E buon lavoro

Dormiente sul divano in orari inconsueti. La telefonata che desta. Allora fino all'alba. Sul mare dell'est. A mangiar porchetta senza pane. Con le mani unte e i piedi nudi.