martedì 29 ottobre 2013

I don't know just where I'm going

Goodnight ladies
ladies goodnight
It's time to say
goodbye, let me tell you, now.


Luglio 2007. Avevo da qualche tempo smesso di collaborare con quell'agenzia, troppi sbattimenti per una paga da fame (anche se l'immagine usciva in prima, rigorosamente senza firma) e per cosa, poi? Per fotografare 10 grammi d'erba sequestrati dal commissariato di Casal Palocco, Veltroni che scopriva targhe, assessori alle prese con inaugurazioni fasulle, conferenze stampa piene di nulla e ingiaccravattati insulsi.
Così, quando mi ritrovai a fotografare Montezemolo, Fiorello e Abete all'apertura dell'anno accademico della LUISS, capii che ne avevo avuto abbastanza. O forse non fu neanche colpa loro, ma dei tipici studenti dell'università di cui sopra - Tod's, camicie e maglioncini sulle spalle - che facevano avanti e indietro tra il bar e il locale di Radio LUISS (ebbene sì...), dj dal vivo con tanto di vetrata vista pulzelle in sfilata sui tacchi. E lo spirito di Brandon Walsh nel portafogli.

Insomma, dal mio punto di vista, i miei ex datori di lavoro mi dovevano qualcosa (tralasciando alcuni compensi tuttora mai corrisposti): inviai una richiesta di accredito all'auditorium, con in calce, come firma, tutti i dati dell'agenzia di cui sopra, copiati e incollati da una mail di tempo prima.
Nonostante una marea di paranoie e la sensazione di essere seguito dai servizi segreti di tutti gli stati mondiali, Mossad in testa, il 6 luglio mi presentai con congruo anticipo rispetto all'orario di inizio, ritirai l'accredito e con una chiara sensazione d'invincibilità, prima di entrare, mi scolai un paio di birre al bar. Ghiacciate.

Ascoltate le raccomandazioni di rito (no flash, si può scattare solo nei primi minuti), accredito in bella vista come un gioiello al ballo delle debuttanti, mi accomodai in prima fila, leggermente defilato rispetto all'asta del microfono.
Assolto per pochi secondi il mio finto dovere di fotografo, ascoltai in trance un concerto meraviglioso (“It's a masterpiece! E' un capolavoro!”, gridò un matto poche file dietro) e poco prima dei bis (come la ricordo, quella Sweet Jane!), tirai di nuovo fuori la macchina. 
Mi alzai. 
E scattai questa foto.


Ciao Lou, per dirla con Patti (che suppongo ignori quante volte il banana album abbia accompagnato i miei letti d'amore): “ti sono in debito”.

martedì 22 ottobre 2013

Riflessioni del mattino

Pensavo che parlare, in questo mondo, conti più dell'ascoltare. Bisogna che me ne faccia finalmente una ragione.

venerdì 11 ottobre 2013

E qualcuno dirà che c'è un modo migliore

Con tutta la retorica insita nell'essere Gramellini, però questo è. 
E la domanda è sempre la stessa, quella che si pone (o dovrebbe porsi) uno come me, semplicemente molto più fortunato di una moltitudine di altre persone di cui non conosciamo il nome: cosa farei al loro posto?

KEBRAT, LA RAGAZZA DAI RICCI NERI
 
Vi racconterò la storia di Kebrat, una ragazza di 24 anni con i capelli ricci, di un nero che tende al rosso.  
Giovedì mattina, credendola senza vita, l’hanno adagiata sulla banchina del porto di Lampedusa accanto ai cadaveri, avvolta come un pacco regalo in un foglio di alluminio dorato da cui spuntavano solo le braccia unte di nafta. Aveva la pancia talmente gonfia di acqua e gasolio che, oltre che morta, sembrava incinta.

Poi all’improvviso Kebrat ha aperto gli occhi e dopo una corsa in elicottero è approdata in un ospedale di Palermo. Tutta tremante, con un filo di voce dietro la mascherina dell’ossigeno, ha raccontato a un’infermiera la sua avventura.

Kebrat è scappata dall’Eritrea con un gruppo di amici. È scappata da un dittatore sanguinario che spedisce i dissidenti a lavorare in miniera come schiavi e ha trasformato l’antica colonia italiana in un carcere dove le guardie di frontiera sono autorizzate a sparare addosso ai fuggiaschi. Eppure Kebrat ce l’ha fatta. Ha attraversato il deserto del Sudan, prima a piedi e poi su un camion, e dopo due mesi inenarrabili ha raggiunto il porto libico di Misurata. Ha guardato il mare e la bagnarola che stava per salpare, senza neanche sapere dove l’avrebbero portata. L’importante era andare via. Ha consegnato i risparmi familiari di una vita allo scafista tunisino che si faceva chiamare The Doctor. E prima di partire ha indossato il vestito della festa.

Durante il viaggio non ha mangiato nulla. Ha bevuto acqua di mare perché c’era il sole e aveva tanta sete. Ogni tanto ha pregato Dio con gli altri profughi in tutte le religioni possibili.

Alle tre di notte di giovedì il mare era grosso, e appena in lontananza è apparsa la terra a Kebrat è scappato da ridere. I suoi brothers, come i profughi eritrei si chiamano tra loro, sventolavano le magliette in segno di giubilo.

Ma a mezzo miglio dalla costa il motore si è rotto. Kebrat non ha avuto paura: vedeva le luci dell’isola e delle altre barche. Un peschereccio si è avvicinato, poi è andato via. La ragazza ha urlato, ma quelli non sentivano o non volevano sentire. (Kebrat non sa che in Italia chi aiuta un profugo rischia l’avviso di garanzia per favoreggiamento. E non sa nemmeno che il Frontex, l’organismo europeo di pattugliamento che ci costa 87 milioni l’anno, è talmente sofisticato da non vedere un barcone di legno a mezzo miglio dalla costa).

È stato allora che qualcuno, per attirare l’attenzione, ha dato fuoco a una coperta. Hanno provato a spegnere le fiamme con altre coperte e con l’acqua di mare, ma è stato inutile. Così è arrivata la paura, tutti gridavano, si stringevano, si spostavano dall’altra parte del barcone, che ha cominciato a ondeggiare. Quando ha visto un suo amico ridotto a torcia umana, Kebrat ha trovato il coraggio di gettarsi nell’acqua gelida.

Ha visto donne che cercavano di tenere a galla i loro bambini, le ha viste affondare nel buio. Sembrava che salutassero, finché le braccia andavano giù.

Poi non ha visto più niente. Con in bocca il sapore del gasolio e del sale, riusciva solo a sentire le urla: come di gabbiani, ma erano persone. Ha nuotato, prendendo a schiaffi l’acqua per ore. Quando era allo stremo, a malincuore si è tolta l’abito inzuppato, pensando che il suo peso l’avrebbe portata a fondo. A quel punto è svenuta.

Ora è qui, nell’ospedale di Palermo, in prognosi riservata per lesioni gravi ai polmoni. Del vestito della festa le è rimasta solo la parte superiore del reggiseno, sulle cui coppe aveva scritto i numeri di telefono dei familiari.
Ma l’infermiera che ha ascoltato la sua storia non sopporta che Kebrat rimanga nuda. Raggiunge il suo armadietto, afferra una maglia bianca, la taglia e la adagia sopra di lei. “Prendila tu, a me non serve”.
Stasera andrò a letto chiedendomi come fa il mio Paese a ritenere giusta una legge che considera Kebrat una criminale, colpevole del reato di immigrazione clandestina, punibile con l’espulsione immediata e la multa fino a 5mila euro.

Buonanotte.

giovedì 3 ottobre 2013

Ma mica so cojone!

Con il rientro per una nuova stagione di cazzotti, ricominciano anche i magnifici dialoghi da spogliatoio:

- "La prima vorta co lavorato in pizzeria c'era la fija del titolare che me la voleva da, ma je ho detto de no."
Tutti, in coro: -"Perchè?!?"
- "Perchè da pischello non volevo scopà prima de 18 anni. Ero 'n cojone, lo so, che ce volete fa".