"Quanno se scherza, bisogna esse' seri!"
(da Il Marchese del Grillo, 1981)
(da Il Marchese del Grillo, 1981)
In definitiva non è che riesca a parlare così bene. Il fatto è che mi distraggo e penso ad altro oppure penso a quella cosa che mi è stata appena detta, ma ci penso così tanto (in rapporto ai tempi di una normale conversazione, intendo) che a quel punto, vista l'inevitabile evoluzione del dialogo, ha più senso starsene zitti. Inoltre, storicamente, sono un disastro, non nel senso che sono un disastro io ripercorrendo la storia della mia vita, ma proprio nella storia del mondo e degli uomini, così finisce che non riesco a contestualizzare alcunchè con conseguente perdita di credibilità.
Dev'essere per questo che quella volta una mi diede ripetutamente dell’ottuso. Ottuso, capite? Mica stronzo, coglione, puttaniere, idiota, traditore e simili, no, ottuso (è evidente che solo le persone che adori possono schiantarti in questa maniera): “notevolmente limitato nelle capacità intuitive, intellettive, sensoriali”. Notevolmente. Ok, è solo il suo "collezionismo di parole complicate", però poi mi disse altre cose e io - cosa mai successa né ripetuta - presi cappotto e sciarpa e andai via di casa (che, per dovere di cronaca, era la sua) ma sto divagando.
Era per dire quanto sia insopportabile quel senso di impotenza, quel non riuscire a trovare le parole giuste eccezion fatta per qualche offesa generica. E poi mi capita pure di sbagliare questa meraviglia che sono i congiuntivi ogni tanto. Così, spesse volte me la cavo con il silenzio, perché ai miei interlocutori certo non posso chiedere di aspettare qualche minuto mentre caco, dormo, suono, pedalo, cucino, fisso il soffitto o qualunque altro punto nello spazio, mi massaggio le tempie, salgo le scale, mi spremo i punti neri, sorseggio dal bicchiere, leggo (col tipico risultato di dover tornare indietro di varie pagine perché gli occhi sono andati avanti ma la testa no e allora cosa diavolo vuoi capire), insomma, tutte quelle situazioni in cui i pochi neuroni rimasti si mettono in moto e ricordano discussioni pendenti solo nella mia testa per poi riuscire - in ovvio e clamoroso ritardo - a trovare risposte e argomenti almeno decenti.
Successe la stessa cosa un paio di anni fa, a casa dei miei, in attesa del caffè dopo pranzo. Credo fosse all’interno della rubrica settimanale a cura di Vincenzo "è tutto bello e imperdibile" Mollica, in coda al Tg1:
- Papà (di stima verso la condizione fisica): “Come sta bene, o no? Ma quanti anni ha?"
- Cirello (sciolto): “Credo sicuramente più di novanta”
- Mamma (la sentenza del nord produttivo): “Ci credo che sta bene, guardagli le mani, quello è uno che non ha mai lavorato!”
- Cirello: “…”
Mia madre, cavolo, quella dolcezza di mia madre.
Rimasi zitto per un po’ con quella frase agghiacciante che martellava contro la mia idea di mondo e delle cose per cui si vive: “Mario Monicelli non ha mai lavorato, Mario Monicelli non ha mai lavorato, Mario Monicelli non ha mai lavorato…”.
Di nuovo nella situazione di cui sopra. E neanche quella volta riuscii ad argomentare alla Umberto Eco, per dire:
ma poi mi rendo conto che il problema della Stupidità ha la stessa valenza metafisica del problema del Male, anzi di più: perché si può persino pensare (gnosticamente) che il male si annidi come possibilità rimossa del seno stesso della Divinità; ma la Divinità non può ospitare e concepire la Stupidità, e pertanto la sola presenza degli stupidi nel Cosmo potrebbe testimoniare della Morte di Dio.
Né, che so, come Paperino:
sapete bene che è il momento dei miei dieci minuti di ginnastica.
Così, presi (a ragione) la frase di mamma come un attacco frontale alla mia laurea e a tutto quel mondo che scrive, dipinge, scolpisce, compone, studia, ricerca, suona, legge, dirige, fotografa. In poche parole, le persone che non si spaccano la schiena nei campi, che quindi (chiudiamo semplicemente il cerchio) “non hanno mai lavorato.”
Poi pensai a quella puntata dei Simpson in cui la famiglia deve decidere dove andare per la consueta gita domenicale e alla fine - tra la proposta splatter di Bart, quella crepuscolare di Marge e quella relativa a fiere mangerecce o mostre di cose imbecilli tipica di Homer - vinse l’ala culturale, quella di Lisa: la fiera del libro.
Ora, potete immaginarvi le lacrime e la tragedia personale di Homer, con già in testa qualche ettolitro di birra o un viaggio sul dirigibile della Duff, ma la maggioranza, a volte, vince anche a Spingfield, allora tocca accettare:
“Ma a cosa diavolo servono i libri? Io ne ho letto uno solo, La capanna dello zio Tom e mi ha solamente insegnato che non si giudica un uomo dal colore della pelle. A che diavolo servono i libri? Buaaaaaaaaaah! Buaaaaaaah!”
Ecco, fu questa la mia risposta. Ma non credo andò a segno.
Niente funerali né estrema unzione (come vorrei io peraltro, con l’aggiunta della cremazione, giusto montè?), in stile col personaggio, così come il salto dal quinto piano: “zingaro” fino alla fine.
E mi raccomando, "Un po' di rispetto, è un cadavere morto!" (da Totò e Carolina, 1955)