Personalmente lo ricorderò sempre con questa frase:
"Non c'è una donna che io non possa battere dandole due cavalli di vantaggio."
Robert James Fischer, scacchista (Chicago 1943 – Reykjavik 2008).
Bobby Fischer è morto martedì scorso a Reykjavik, il luogo che (nel 1972) lo aveva consegnato alla storia della scacchiera e non solo, dopo l’epica, vittoriosa - 12,5 a 8,5 - sfida contro il campione del mondo in carica, Boris Spasskij, diventando così l’unico statunitense della storia a detenere il titolo.
Agli addetti ai lavori bastò quella partita, quella vittoria nata una ventina d'anni prima, quando il giovane Robert imparò a giocare leggendo il libretto di istruzioni di una scacchiera, per riconoscere Bobby Fischer come il più grande giocatore di scacchi di sempre.
Nel 1975, al momento di rimettere il titolo in palio contro Anatoly Karpov, Fischer sceglie di non giocare (incorrendo così nella squalifica della Federazione Scacchistica Internazionale).
E di sparire.
Il ritorno, datato settembre 1992, è in grande stile: nella Jugoslavia insanguinata dal conflitto etnico va in scena la “Partita della pace”, “La Rivincita del XX secolo” o "La Rivincita" e basta.
Di fronte a lui, ovviamente, c’è ancora Boris Spasskij.
E' in Jugoslavia (sotto embargo ONU) che Fischer decide di andare oltre gli scacchi, o forse di non separarsene mai: in una conferenza stampa prima dell'incontro, sputa sul foglio di divieto emesso dal dipartimento di Stato (per i cittadini americani era proibito intraprendere qualunque tipo di attività nel territorio di quel paese), guadagnandosi la qualifica di “persona non grata” prima, e un’incriminazione per violazione dell’embargo con relativo mandato d’arresto (15 dicembre 1992) subito dopo.
La partita si svolge in due fasi, a Sveti Stefan (Montenegro) e Belgrado. Bobby vince ancora. E sparisce. Di nuovo.
Fischer torna d’attualità nel 2004 quando viene arrestato a Tokyo per passaporto irregolare. Oppostosi all’estradizione negli USA (rischiava una condanna a 10 anni) rimane nelle carceri giapponesi per otto mesi, prima che l’Althing, il parlamento islandese, gli riconosca la cittadinanza per ragioni umanitarie, accusando i governi giapponese e statunitense di averlo sottoposto ad ingiusti trattamenti.
A niente erano servite le istanze del “Comitato per la liberazione di Bobby Fischer” e la magnifica lettera che Boris Spasskij, l’avversario che mai lo abbandonò, spedì al presidente Bush, lettera di cui copioincollo il finale, non senza la canonica pelle d’oca e la logica degli occhi lucidi, perchè lo sport è questo, è quello dei bambini, grazie al quale potremmo vivere tutti meglio, incazzati e sorridenti e piangenti al punto giusto. E magari con una lunga barba bianca:
"Non voglio difendere o giustificare Bobby Fischer. Lui è fatto così. Vorrei chiederle soltanto una cosa: la grazia, la clemenza. Ma se per caso non è possibile, vorrei chiederle questo: la prego, corregga l'errore che ha commesso François Mitterrand nel 1992 (Spasskij ha acquisito la nazionalità francese). Bobby ed io ci siamo macchiati dello stesso crimine. Applichi quindi le sanzioni anche contro di me: mi arresti, mi metta in cella con Bobby Fischer e ci faccia avere una scacchiera."
Boris Spasskij, decimo campione del mondo di scacchi
Nel dicembre 2006 un altro episodio da leggenda: su di un canale della televisione islandese stanno diffondendo una trasmissione sugli scacchi. Due grandi maestri si stanno sfidando in diretta con cadenza di 30 minuti a testa. Ad un certo punto il giocatore con il nero sbaglia e perde. I due avversari cominciano allora ad analizzare la posizione per trovare quale sia la continuazione corretta quando giunge una telefonata allo studio televisivo.
La voce, in diretta, è di Bobby Fischer: "vorrei segnalare che la continuazione vincente per il nero è la seguente".
I due grandi maestri si affrettano a controllare:
chapeau.