La ragione del viaggio
"Sono un uomo nuovo quando faccio ritorno a casa."
Jack Kerouac - Angeli di Desolazione, 1965
Dal nulla, a bordo della brizzolata in versione jazz, il capo della tribù dei nasi giganti buttò lì una domandina semplice semplice: “Dov’è che vi sentite a casa?”.
Stanco da tutto, diedi sì e no una mezza risposta senza costrutto alcuno e sono certo che anche dopo queste righe rimarrò con la faccia di chi cerca una fontanella zampillante acqua fresca fuori da un gelataio. Cosa che in un mondo perfetto dovrebbe esserci sempre. Ma sto tergiversando, per dirla con Pizzul.
Il fatto è che qualche tempo fa, mi sono sentito a casa sull’asse attrezzato (mica una tangenziale qualsiasi), quando, cantando (leggete: urlando semi ubriachi) Dillo alla luna (tra l'altro, mi sto convincendo sempre più che i capolavori si fanno con tre accordi) con un po’ degli amici di sempre, si è palesata la torre del comune accarezzata dal tramonto. E il fiume subito sotto. In attesa del mare.
Quindi, mi chiedo: la casa è dove si è cresciuti? Allora perché voglio sempre andar via da lì?
Cioè, per dire, l’altro giorno ho provato la medesima sensazione sul treno che da Jerez mi riportava verso la casa di quel periodo, con l’alba stavolta, al solito sempre diversa, che tagliava i vetri poggiandosi morbida su palpebre pesanti come quelle incudini che finivano in testa al maldestro Willy il coyote.
Così mi son detto che probabilmente una casa non c’è, non esiste. Mai. O sempre. Ed è quella verso cui si sta tornando. E che se non c’è viaggio non c’è casa. Perché non c’è ritorno. Come cantano sempre i vecchi bluesman. Sì, la vita è un lancinante blues.
In ogni caso, attendo di diventare grande, così capirò tutto.
Jack Kerouac - Angeli di Desolazione, 1965
Dal nulla, a bordo della brizzolata in versione jazz, il capo della tribù dei nasi giganti buttò lì una domandina semplice semplice: “Dov’è che vi sentite a casa?”.
Stanco da tutto, diedi sì e no una mezza risposta senza costrutto alcuno e sono certo che anche dopo queste righe rimarrò con la faccia di chi cerca una fontanella zampillante acqua fresca fuori da un gelataio. Cosa che in un mondo perfetto dovrebbe esserci sempre. Ma sto tergiversando, per dirla con Pizzul.
Il fatto è che qualche tempo fa, mi sono sentito a casa sull’asse attrezzato (mica una tangenziale qualsiasi), quando, cantando (leggete: urlando semi ubriachi) Dillo alla luna (tra l'altro, mi sto convincendo sempre più che i capolavori si fanno con tre accordi) con un po’ degli amici di sempre, si è palesata la torre del comune accarezzata dal tramonto. E il fiume subito sotto. In attesa del mare.
Quindi, mi chiedo: la casa è dove si è cresciuti? Allora perché voglio sempre andar via da lì?
Cioè, per dire, l’altro giorno ho provato la medesima sensazione sul treno che da Jerez mi riportava verso la casa di quel periodo, con l’alba stavolta, al solito sempre diversa, che tagliava i vetri poggiandosi morbida su palpebre pesanti come quelle incudini che finivano in testa al maldestro Willy il coyote.
Così mi son detto che probabilmente una casa non c’è, non esiste. Mai. O sempre. Ed è quella verso cui si sta tornando. E che se non c’è viaggio non c’è casa. Perché non c’è ritorno. Come cantano sempre i vecchi bluesman. Sì, la vita è un lancinante blues.
In ogni caso, attendo di diventare grande, così capirò tutto.