Patti chiama Lou (un po' come Asso chiama Sette o Capopattuglia chiama Corvo)
IT’S A MASTER PIECE! E’ UN CAPOLAVORO!
(Un tipo, più o meno dall’ottava fila, a poco più di dieci minuti dall’inizio).
Mai tanta grazia piovuta sullo scrivente come in questi ultimi giorni.
La formazione (a memoria):
Chitarra (alternativamente elettrica e acustica), basso e contrabbasso, tastiera, batteria, violoncello elettrico, due sassofoni (un contralto e un tenore), due trombe, due tromboni, due violini, una viola, coro angelico di venti bambini biondi in grembiule azzurro, voce femminile vestita di rosso. Dimenticavo, poi c’era la voce maschile con chitarra a tracolla: Lewis Alan Reed. Per gli amici Lou.
"Berlin” è un disco di oltre 30 anni fa che non è stato mai presentato dal vivo data la sua complessità. Quando uscì nel 1973 fu scioccante sia per la critica che per i fan, che avevano appena visto riaffermata l’immagine di Lou Reed come visionario rock dopo il successo di “Transformer”. Anziché produrre un album che consolidasse la sua reputazione di innovatore glam-rock, Reed si immerse in un progetto estremamente ambizioso, emozionalmente denso, psicologicamente estenuante e completamente coinvolgente, un concept album oscuro che parlava di tormentate dipendenze d’amore che portano alla deriva, di cuori spezzati che descrivevano la propria caduta nei sobborghi di una città divisa.
Spulciando il sito della Garzanti Linguistica:
Carisma [ca-rì-Sma], s. m. [pl. -Smi, ant. cariSmati], (fig.): prestigio, ascendente, forza di persuasione che si fondano su straordinarie ed esemplari qualità personali.
Ecco.
Quel tipo di braccio - nervoso, tirato, muscoloso per lo spasmo anche in assenza di sforzo – avevo imparato a conoscerlo nei dintorni di casa, zona stadio, in quel periodo particolarmente creatore di mostri che è stato l’inizio degli anni ’80. E poi il gilettino di pelle in stile Warriors gli calzava come una calza sopra un calzino.
Ci crede un bel po’ l’uomo di NYC, si vede che ha voglia, si vede dagli occhi, laggiù sotto il sopracciglio, scandisce bene le parole muovendo le rughe del viso in modi incompresibili, dirige ogni membro presente sul palco come un Von Karajan sotto camomilla corretta all’efedrina.
(Una pecca: ok, non sono un ingegnere del suono ma posso dichiarare ufficialmente che le sale dell’auditorium non sono fatte per l’elettricità. Vince l’acustico lì dentro. Perché non farlo suonare all’esterno, meno paganti?)
E’ un’adorabile bastardo Mr. Lou. E lui è davvero troppo consapevole di esserlo anche se stasera sembra che l’affabilità stia avendo il sopravvento su quei solchi.
Ottimo il bis dunque (con il pubblico incredibilmente - … - in piedi sotto al palco):
Una Sweet Jane "picchiata" ma in solenne introspezione, Satellite of Love interminabile, cantata praticamente 4 volte (la prima dal bassista in un sorta di farsetto alla Farinelli, la seconda da Mister Reed in persona, la terza dal coro angelico e la quarta tutti insieme, violentando gli strumenti) per chiudere con una Walk on the wild side che dedico qui ed ora al My Pal abitante in qualche blocco di Washington D.C. dicendogli:
“Guarda che il basso è ancora sotto al mio letto”.
Sì, insomma, come disse Salieri uscendo da un’esibizione di Mozart:
“Ragà, un cazzo di concerto!”
1 commento:
Caz, capitano! Il mio cuore palpita nel sapervi così forti sul campo da gioco. E il manto erboso di San Leone mi chiama ogni volta che scendete in campo.
Ora e sempre, Forza Colleoni!
Fredo
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