Piedi sull'asfalto
Dopo gli anni scolastici con i brufoli sulla faccia, quelli accademici con birre tra le dita, sono maturo per affrontare l’inizio di un nuovo anno bloggifero.
Tornato dalla visione di balene e donne con le tette grandi, eccomi di nuovo con una tastiera sotto le mani, vedo polpastrelli leggermente intimiditi, timorosi di perdere gli ultimi granelli di sabbia e sale.
Ma, come ben saprete, voi che siete capaci quanto me, quando il periodo vacanziero diventa oltremodo riposante, qualcosa non va.
Non preoccupatevi comunque, sono ansioso di comunicare che dalle mie parti non è cambiato alcunché. Ebbene sì, anche quest’anno avrei tanto bisogno di una vacanza per recuperare dalla vacanza, quel periodo in cui, alla mente ritemprata dalla vacanza, dovrebbe essere accostato il riposo del corpo, che poi altro non è che il significato primo e ultimo della vacanza post vacanza.
Un altro anno dunque, pronto a far provviste per il rigoroso inverno: ghiande, bacche e radici, in salsa di libri e canzoni.
Mentre scrivo, 12655 persone hanno visitato La festicciola di Cyrus dal giorno della sua nascita, il 15 novembre 2006. Se a questa cifra sottraiamo mas o meno 10456 (che è il numero di volte che il titolare della festicciola ha visitato la sua pagina per puro e semplice protagonismo spicciolo e tanta voglia di sentirsi uno che la gente ama leggere), rimangono 2190 contatti, una cifra di tutto rispetto. E via, pippe all’americana adesso.
Va bene, sto vaneggiando. La domanda è la seguente: perché mai ho aperto questa pagina?
Pensando a questa futilissima domanda, gatton gattoni (o canon canoni piuttosto che giraffon giraffoni o echidnon echidnoni), tomo tomo cacchio cacchio, mi sono accorto di aver dato la risposta l’8 luglio 2007 alle ore 00:44 (ne L’erba del vicino, post del 5 luglio), replicando ad un intervento del Prof. Ford, pregiatissimo/a frequentatore/trice senza volto di queste pagine virtuali.
Allora ho deciso di promuovere quel commento, elevandolo a topic del post invece che lasciarlo a commento di un commento del post. E credo di essere stato chiarissimo.
Chi l’ha letto può rifarlo. Chi non l’ha letto può rifarlo.
Io intanto lo butto qui sotto, come mamma, anzi papà, l’ha sfornato.
A dire la verità non ho mai pensato al “noi scriviamo così”.
Ho deciso di scrivere condividendo, di “aprire un blog” (immagino qualche anno fa se qualcuno mi avesse chiesto: - “Ti piacerebbe aprire un blog?”, - “Eeh?, che diavolo vai farneticando..?”) perché non stavo più scrivendo. Capita mano ogni tanto, acnhe se il computer è sto maledetto messenger hanno avvolto di pigrizia mente e polpastrelli.
Scrivo perché mi piace, tutto qui. Perché lo considero uno sfogarsi, un liberarsi tanto quanto tirare pugni ad un sacco anche se forse lì la fisicità prende il sopravvento. E poi capisco molte cose di me scrivendo, la timidezza va via o si nasconde. E io mi sento molto più nudo, molto più soggetto ai lividi. Sì, credo di fare un grosso lavoro su me stesso. Credo di migliorarmi, se questo vuol dire qualcosa. Diciamo che risparmio i soldi dello psicologo con una sana e nerboruta autoanalisi.
Ogni tanto spendo pure ore e ore a rileggere me e le risposte di chi condivide, a riguardare le vecchie mail, le esperienze passate, le parole che adesso non scriverei mai, i litigi con le donne perché a me dal vivo vengono sempre male. In genere funziona così: si discute, dico le mie stronzate, anzi, dico le mie verità ma con parole del tutto opposte a quelle che vorrei dire e lei, giustamente, mi manda a cacare. Allora è lì che le dita volano, lei legge, e tutto torna meglio di prima. O almeno spesse volte è andata così.
E (perlomeno il mio) citare Bogart o Ciccio di Nonna Papera non è celebrare una generazione, forzare uno stile o peggio ancora compiacersi (forse al liceo sì, ma vienilo a dire al titolare della Festicciola e all’esimio frequentatore Gallit, entrambi usciti da un militare di 5 anni all’I.T.I.S.), è semplicemente scrivere. Riportare su carta le immagini che si affollano nella mente (perché bogart fuma la sigaretta molto meglio di James Dean o di Raoul Bova…scusate…) perché lo scrittore che volevo diventare era ovviamente plasmato da Kerouac (da Bukowski, da Ellis, certo: perché mai ci siamo ubriacati la prima volta?), dalla prosa spontanea che poi rimanda a Whitman e blablabla. E perché in definitiva, posso pure essere figlio di Holly e Benji, di Bem e dell’A-Team, ma sono il nipote di tante altre cose che li hanno preceduti. E i nonni insegnano parecchio, “che ve lo dico a fare” (ad esempio, non avrei ami utilizzato quest’espressione se non l’avessi sentita come geniale traduzione di Forget about it in Donnie Brasco).
Non ci trovo niente di male nel provare a inventare metafore, similitudini e ossimori che farebbero rivoltare Chandler nella tomba. Mi piace pensare che anche a lui venissero così, senza arrovellarsi troppo. Certo, le sue erano migliori, e vorrei pure vedere: quando mi verrà mai in mente di scrivere di "Una foresta di piante dalle sinistre foglie carnose e dagli steli simili a dita di morti lavate di fresco"?
Io penserei a stuzzicadenti consumati o matite spuntate, come diavolo faccio a pensare a dita di morti lavate di fresco?
Scrivo. Il che mi farebbe entrare di diritto nella cerchia degli scrittori secondo la celebre descrizione che Burroughs fece di Ti-Jean (chi mi conosce sa quante volte l'ho utilizzata). Così, giusto per chiudere, anzi accostare, il cerchio intorno a quello che ho cercato malamente di dire in queste righe:
"Kerouac era uno scrittore. In altri termini, scriveva. Molti di quelli che si definiscono scrittori e che hanno i loro nomi stampati, non sono affatto scrittori e non possono scrivere – la differenza sta in questo; un toreador che si batte con un toro è differente da un cazzaro che fa delle piroette senza toro. Lo scrittore è stato là altrimenti non può scriverne. E andando là rischia di essere incornato”.
Qui non c’è alcuna voglia di mostrarsi per quello che non si è. “Sessanta anni, cazzo sessanta”, lo scrivo perché davvero vorrei arrivarci così (con quell’energia almeno) ai 60. “Fanculo a ‘sti cazzo di posti a sedere” lo scrivo perché davvero non concepisco l’idea di andarmi a vedere Patti Smith e stare seduto, come cavolo faccio a stare seduto? Me lo spiegate? Magari davanti ad un bicchierino di amaro del capo che è buono (nella sua fascia) e costa pure poco.
E ricordo i tempi in cui io e il mio fido compagno di banco paolucci ci sfidavamo a colpi di saggi dagli argomenti improbabili ognuno sul diario (o qualsiasi altra cosa in sua vece) dell’altro. Ricordo “L’evoluzione del due di coppe” (mio) o “Gli usi e i costumi dello scopettone del cesso” (suo). Questo è il mio modo di essere scrittore, ridere del non saperlo essere sul serio ma di esserlo comunque, con i miei tic (scrivo spesso “sì, insomma”, oppure ho la fissa dei periodi lunghi alternati a quelli brevi che iniziano sempre con la “e” dopo il punto), le mie ripetizioni, il mio tentare di scrivere come quello o come quell’altro con la consapevolezza di non poterlo fare semplicemente perché non sono quello nè quell’altro e che le nostre vite sono diverse e i nostri occhi pure.
Intanto mi metto in gioco, perché quest’arte scalda e brucia. E fa piangere e ridere a donarla e riceverla.
Ora, come mio costume, non rileggo (anzi, a ‘sto giro correggo i refusi sapendo già di lasciarne tanti per strada), perché le confessioni, almeno da me, non si ritrattano.
E poi succede come adesso, che sono partito per scrivere qualcosa e ho buttato giù forse l’opposto. Ma quello che conta è scritto in realtà solo 23 parole prima di questa: sono partito. Eccolo qui. Il motivo per cui scrivo.
cy