sabato 3 maggio 2014

E zitto

- Cirello: "E come mai sei rimasto in Italia?"
- Hal: "Perchè a Tokio l'anima non riusciva a respirare."


martedì 22 aprile 2014

Grazie

Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendìa si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio. Macondo era allora un villaggio di venti case di argilla e di canna selvatica costruito sulla riva di un fiume dalle acque diafane che rovinavano per un letto di pietre levigate, bianche ed enormi come uova preistoriche. Il mondo era così recente, che molte cose erano prive di nome, e per citarle bisognava indicarle col dito. 

sabato 1 febbraio 2014

"Appena ce l'hai a tiro, polverizzalo"

Qualche giorno fa, con una zuppa di patate e cipolle (avete presente la faccia del frigo vuoto?, ecco) sotto al naso, ho visto gli ultimi 15 minuti di The Apprentice, il programma in cui Flavio Briatore, con un italiano stentato e zeppo di inglesismi tipo target, deal, costumer, profiling e tristezze varie, giudica degli aspiranti manager alle prese con prove di svariata natura.

All'interno della board-room (perchè sala riunioni poteva apparire troppo cheap, suppongo), il Boss decide la squadra vincitrice della prova mentre, in quella perdente, verrà individuato il più scarso della mission svolta (che può anche essere il caposquadra, pardon, team-leader), che verrà mandato a casa e dovrà dire addio al sogno di lavorare con Flavio Briatore in persona. E magari, un giorno, anche con il suo erede Nathan Falco.

Tutto questo, per dirvi che la distanza dello scrivente da questo mondo vuoto, riempito a malapena da trolley (che tutti portano con sè fuori dalla sala riunioni, pardon...) e tacchi 12, è stata resa ancor più netta guardando il premio dato alla squadra vincitrice e la punizione afflitta agli sconfitti:

i primi, invitati "nel più esclusivo golf club di Milano", calici in mano a brindare nella Club House e a provare colpi nel campo pratica; i secondi, ad espiare le proprie malefatte in un bar spoglio di provincia, con un biliardo ben illuminato alle spalle, tavolini tondi e birre ghiacciate di fronte.

Ora, secondo voi, avrei voluto vincere o perdere?

venerdì 10 gennaio 2014

Odiami per non cadere pronto nell'amore che non voglio

- Che hai? - le aveva chiesto lui fermando addirittura il cucchiaio a due dita dalla bocca.
- Niente, - aveva risposto Irene. E gli aveva carezzato il dorso della mano, il gesto che fanno le donne quando vanno via per non tornare più.

(Mancarsi - Diego De Silva, 2012)

venerdì 27 dicembre 2013

Nel wine bar, seduto nella lounge zone con wi-fi free, musica chill out (ottimo il subwoofer) nel tentativo di non essere troppo out.

E' che l'altro giorno mi sono fatto un po' di autoscatti.
Poi mi hanno detto che no, si trattava di selfie.

venerdì 29 novembre 2013

Paraponziponzi-enza

Non che cambi molto in realtà, però in un modo o nell'altro, la vita è anche fatta di date.
Così, a meno che in un prossimo futuro non si compia il diabolico piano del dottor K1, i numeri continueranno a scandire le nostre esistenze e le date a spartire i capitoli dei libri di storia.

Allora, per spiegare in due minuti 'sto 27 novembre (e parecchi anni che l'hanno preceduto) ai posteri, chiamo a parlare Glauco Benetti.

giovedì 21 novembre 2013

Saggezza capitolina

Roma, esterno notte. Alla guida di un mezzo a 4 ruote, il non più giovane Cirello, dopo aver cambiato più volte itinerario per evitare imbottigliamenti, si ritrova sul muro torto, imbottigliato. Squilla il telefono.

M: - "Ciao Ci', ndo stai?"
C:  - "Sono bloccato nel traffico, c'è un delirio ovunque: mi sai dire che cazzo è successo?"
M: - "E' che ieri ha piovuto."

mercoledì 13 novembre 2013

Fa scintille sulla legna

Stimolato dall'ultima coperta di lana messa sul letto, dalla pioggia presa ieri in bici e dai guanti con le dita tagliate già indossati per guidarla oltre che dalla pila di cd formatasi mentre il vento schiaffeggiava le tapparelle mettendo a dura prova le coronarie di Samantina, volevo scrivere l'ennesima, annuale banalità su quanto il passaggio alla stagione invernale scateni ancor di più - per quanto possibile - l'orso che dorme perennemente dentro di me.

Però adesso, sono seduto con la finestra spalancata alle spalle, piedi nudi, Miles Davis a palla dalle casse e Samantina allungata sul tappeto a rosicchiare la carta di una vecchia confezione di Ringo. Allora, tenendo in caldo gli insulti che usciranno dai miei futuri piedi freddi, passerei alla notizia del giorno, ossia che la fregna ("che non diventi mai un Off Topic", dicevo un Roseo saggio), dopo esser stata la testimonial di tutto lo scibile umano, dalle creme rassodanti ai problemi intestinali, dai profumi alle emorroidi, è ora passata alla "cultura", se mi passate questo termine volgare.

"Tutti facciamo le uova fritte e facciamo l'amore e fumiamo, ah, non puoi sapere quanto fumiamo, quanto facciamo l'amore, in piedi, coricati, in ginocchio, con le mani, con le bocche, piangendo o cantando, e fuori c'è di tutto, le finestre danno sull'aria e tutto comincia con un passero o un'infiltrazione, piove moltissimo qui, Rocamadour, molto di più che in campagna, e le cose si arruginiscono, i tubi, le zampe dei colombi, i fili di ferro con i quali Horacio fa le sue sculture." 
(da Il gioco dl mondo, 1966 )

"Belen Rodriguez legge Cortazar", questa una delle prime notizie che mi è toccato leggere stamattina.

Che dire, magari qualche allupato della prima ora troverà la motivazione giusta per entrare in libreria e comprare qualcosa che vada oltre un certo numero di noiosissime sfumature.

Così almeno cambierà opinione sulla fregna, penso, senza essere per nulla fuori tema.
Ma lo so, sono un povero illuso.
 

martedì 29 ottobre 2013

I don't know just where I'm going

Goodnight ladies
ladies goodnight
It's time to say
goodbye, let me tell you, now.


Luglio 2007. Avevo da qualche tempo smesso di collaborare con quell'agenzia, troppi sbattimenti per una paga da fame (anche se l'immagine usciva in prima, rigorosamente senza firma) e per cosa, poi? Per fotografare 10 grammi d'erba sequestrati dal commissariato di Casal Palocco, Veltroni che scopriva targhe, assessori alle prese con inaugurazioni fasulle, conferenze stampa piene di nulla e ingiaccravattati insulsi.
Così, quando mi ritrovai a fotografare Montezemolo, Fiorello e Abete all'apertura dell'anno accademico della LUISS, capii che ne avevo avuto abbastanza. O forse non fu neanche colpa loro, ma dei tipici studenti dell'università di cui sopra - Tod's, camicie e maglioncini sulle spalle - che facevano avanti e indietro tra il bar e il locale di Radio LUISS (ebbene sì...), dj dal vivo con tanto di vetrata vista pulzelle in sfilata sui tacchi. E lo spirito di Brandon Walsh nel portafogli.

Insomma, dal mio punto di vista, i miei ex datori di lavoro mi dovevano qualcosa (tralasciando alcuni compensi tuttora mai corrisposti): inviai una richiesta di accredito all'auditorium, con in calce, come firma, tutti i dati dell'agenzia di cui sopra, copiati e incollati da una mail di tempo prima.
Nonostante una marea di paranoie e la sensazione di essere seguito dai servizi segreti di tutti gli stati mondiali, Mossad in testa, il 6 luglio mi presentai con congruo anticipo rispetto all'orario di inizio, ritirai l'accredito e con una chiara sensazione d'invincibilità, prima di entrare, mi scolai un paio di birre al bar. Ghiacciate.

Ascoltate le raccomandazioni di rito (no flash, si può scattare solo nei primi minuti), accredito in bella vista come un gioiello al ballo delle debuttanti, mi accomodai in prima fila, leggermente defilato rispetto all'asta del microfono.
Assolto per pochi secondi il mio finto dovere di fotografo, ascoltai in trance un concerto meraviglioso (“It's a masterpiece! E' un capolavoro!”, gridò un matto poche file dietro) e poco prima dei bis (come la ricordo, quella Sweet Jane!), tirai di nuovo fuori la macchina. 
Mi alzai. 
E scattai questa foto.


Ciao Lou, per dirla con Patti (che suppongo ignori quante volte il banana album abbia accompagnato i miei letti d'amore): “ti sono in debito”.

martedì 22 ottobre 2013

Riflessioni del mattino

Pensavo che parlare, in questo mondo, conti più dell'ascoltare. Bisogna che me ne faccia finalmente una ragione.

venerdì 11 ottobre 2013

E qualcuno dirà che c'è un modo migliore

Con tutta la retorica insita nell'essere Gramellini, però questo è. 
E la domanda è sempre la stessa, quella che si pone (o dovrebbe porsi) uno come me, semplicemente molto più fortunato di una moltitudine di altre persone di cui non conosciamo il nome: cosa farei al loro posto?

KEBRAT, LA RAGAZZA DAI RICCI NERI
 
Vi racconterò la storia di Kebrat, una ragazza di 24 anni con i capelli ricci, di un nero che tende al rosso.  
Giovedì mattina, credendola senza vita, l’hanno adagiata sulla banchina del porto di Lampedusa accanto ai cadaveri, avvolta come un pacco regalo in un foglio di alluminio dorato da cui spuntavano solo le braccia unte di nafta. Aveva la pancia talmente gonfia di acqua e gasolio che, oltre che morta, sembrava incinta.

Poi all’improvviso Kebrat ha aperto gli occhi e dopo una corsa in elicottero è approdata in un ospedale di Palermo. Tutta tremante, con un filo di voce dietro la mascherina dell’ossigeno, ha raccontato a un’infermiera la sua avventura.

Kebrat è scappata dall’Eritrea con un gruppo di amici. È scappata da un dittatore sanguinario che spedisce i dissidenti a lavorare in miniera come schiavi e ha trasformato l’antica colonia italiana in un carcere dove le guardie di frontiera sono autorizzate a sparare addosso ai fuggiaschi. Eppure Kebrat ce l’ha fatta. Ha attraversato il deserto del Sudan, prima a piedi e poi su un camion, e dopo due mesi inenarrabili ha raggiunto il porto libico di Misurata. Ha guardato il mare e la bagnarola che stava per salpare, senza neanche sapere dove l’avrebbero portata. L’importante era andare via. Ha consegnato i risparmi familiari di una vita allo scafista tunisino che si faceva chiamare The Doctor. E prima di partire ha indossato il vestito della festa.

Durante il viaggio non ha mangiato nulla. Ha bevuto acqua di mare perché c’era il sole e aveva tanta sete. Ogni tanto ha pregato Dio con gli altri profughi in tutte le religioni possibili.

Alle tre di notte di giovedì il mare era grosso, e appena in lontananza è apparsa la terra a Kebrat è scappato da ridere. I suoi brothers, come i profughi eritrei si chiamano tra loro, sventolavano le magliette in segno di giubilo.

Ma a mezzo miglio dalla costa il motore si è rotto. Kebrat non ha avuto paura: vedeva le luci dell’isola e delle altre barche. Un peschereccio si è avvicinato, poi è andato via. La ragazza ha urlato, ma quelli non sentivano o non volevano sentire. (Kebrat non sa che in Italia chi aiuta un profugo rischia l’avviso di garanzia per favoreggiamento. E non sa nemmeno che il Frontex, l’organismo europeo di pattugliamento che ci costa 87 milioni l’anno, è talmente sofisticato da non vedere un barcone di legno a mezzo miglio dalla costa).

È stato allora che qualcuno, per attirare l’attenzione, ha dato fuoco a una coperta. Hanno provato a spegnere le fiamme con altre coperte e con l’acqua di mare, ma è stato inutile. Così è arrivata la paura, tutti gridavano, si stringevano, si spostavano dall’altra parte del barcone, che ha cominciato a ondeggiare. Quando ha visto un suo amico ridotto a torcia umana, Kebrat ha trovato il coraggio di gettarsi nell’acqua gelida.

Ha visto donne che cercavano di tenere a galla i loro bambini, le ha viste affondare nel buio. Sembrava che salutassero, finché le braccia andavano giù.

Poi non ha visto più niente. Con in bocca il sapore del gasolio e del sale, riusciva solo a sentire le urla: come di gabbiani, ma erano persone. Ha nuotato, prendendo a schiaffi l’acqua per ore. Quando era allo stremo, a malincuore si è tolta l’abito inzuppato, pensando che il suo peso l’avrebbe portata a fondo. A quel punto è svenuta.

Ora è qui, nell’ospedale di Palermo, in prognosi riservata per lesioni gravi ai polmoni. Del vestito della festa le è rimasta solo la parte superiore del reggiseno, sulle cui coppe aveva scritto i numeri di telefono dei familiari.
Ma l’infermiera che ha ascoltato la sua storia non sopporta che Kebrat rimanga nuda. Raggiunge il suo armadietto, afferra una maglia bianca, la taglia e la adagia sopra di lei. “Prendila tu, a me non serve”.
Stasera andrò a letto chiedendomi come fa il mio Paese a ritenere giusta una legge che considera Kebrat una criminale, colpevole del reato di immigrazione clandestina, punibile con l’espulsione immediata e la multa fino a 5mila euro.

Buonanotte.

giovedì 3 ottobre 2013

Ma mica so cojone!

Con il rientro per una nuova stagione di cazzotti, ricominciano anche i magnifici dialoghi da spogliatoio:

- "La prima vorta co lavorato in pizzeria c'era la fija del titolare che me la voleva da, ma je ho detto de no."
Tutti, in coro: -"Perchè?!?"
- "Perchè da pischello non volevo scopà prima de 18 anni. Ero 'n cojone, lo so, che ce volete fa".

giovedì 12 settembre 2013

Io c'ero(reprise)

Sono ormai più volte che mi cito (questo è del 21 giugno 2007). Potrei iniziare a preoccuparmi.
In ogni caso, lo ricordo solo, seduto al tavolo vicino la finestra, bottiglia di acqua Nepi e un piatto di spaghetti pomodoro e basilico.


Io c'ero

Tutto pronto per il concerto di Enrico Sbriccoli, meglio conosciuto come Jimmi Fontana, un uomo di 72 anni con la faccia di Luca Brasi e i capelli di Kirk Douglas.
Tavoli gremiti al limite della capienza (108 paganti: 40 euro, cena+concerto), temperatura elevata ma ammorbidita da un delizioso alitare di vento, terreno in perfette condizioni, e vorrei vedere, visto che il “maestoso” palco era montato a ridosso del green della buca numero 9.
Jimmi, in completo nero e girocollo nero (stile Giorgio Armani per intenderci), prova subito a scaldare la platea un po’ freddina (eufemismo gigantesco) con uno dei suoi grandi classici (La nostra favola, 1978, “Mai, mai, mai ti lascio, mai, mai, mai da sola”), che da questo momento in poi verranno presentati sempre alla stessa maniera: “Visto che siamo quasi sul green vi canto un evergreen”…

Primi applausi.

Seguono canzoni da me sconosciute in cui il nostro non perde occasione per autocelebrarsi (“Ma chi li scrive più testi così? Chi?") e raccontare della sua carriera ancora al top (“Sono appena tornato da un concerto a Bruxelles, sono l’ambasciatore nel mondo dei marchigiani nel mondo”).
Si arriva finalmente al momento che tutti, compreso lo scrivente, aspettavano, quello che pensavo, ingenuo pischelletto, fosse il clou della serata: accompagnato da una big band di ben due elementi, Jimmi dimostra ancora di avere la tonalità di un tempo, cantando Il mondo (1965) con lo stesso arrangiamento di 40 anni fa. E non per mera vanità, ma per confidarci il nome dell’arrangiatore dell’epoca: "Il premio Oscar Ennio Morricone".
Il pubblico, età media sessantacinque, comincia a risvegliare emozioni sopite, alcuni si alzano in piedi.

Il clou.

“Visibilmente” emozionato, Jimmi confessa ai fan in adorazione il suo più grande rimpianto, datato 1971: visto che ne era l’autore, avrebbe voluto esser lui e non i Ricchi e Poveri, a cantarla sul palco dell’Ariston.
“Paese mio che stai sulla collina…”, ovazione che si tramuta in tripudio al momento del ritornello (“Che sarà, che sarà, che sarààààààààààà”), non volevo crederci, scatta la panolada in stile Santiago Bernabeu, tutti ad agitare tovaglioli solo per lui: Enrico Sbriccoli, meglio conosciuto come Jimmi Fontana.
Dentro di me sentimenti contrastanti: da una parte la gioia insita nella consapevolezza di vivere una scena irripetibile; dall'altra la delusione per non avere potuto goderne appieno. Sì, perchè invece di essere tra i tavoli, a sventolare il mio personalissimo bandierone, ero in piedi col sorriso inebetito, in disparte, vestito di nero. Cameriere.

domenica 8 settembre 2013

Accontentarsi

"Cirè, il tuo problema è che non ti accontenti."
(anonimo birraiolo)


E c'era anche un'altra fortuna: una donna buona.
C'erano voluti 56 anni per trovare Linda, ed era valsa la pena aspettare. Un uomo doveva provare tante donne per trovare l'unica, e se aveva fortuna lei sarebbe stata al suo fianco. Per un uomo, sistemarsi con la prima o la seconda donna della vita è comportarsi da ignorante; non ha idea di cosa sia una donna. Un uomo deve compiere il percorso fino in fondo, e ciò non significa solo andare a letto con le donne, scoparle una volta o due; vuole dire vivere con loro per mesi e anni.

Non biasimo gli uomini che hanno paura di una cosa simile, significa mettere l'anima a disposizione di tutte. Naturalmente alcuni uomini si sistemano con una donna, rinunciano, dicono ecco, è il meglio che posso fare. Ce ne sono moltissimi, in effetti la maggior parte delle persone vive sotto la bandiera della tregua: si rende conto che le cose non funzionano in modo proprio perfetto, ma non importa, accontentiamoci, dicono, non serve a niente percorrere di nuovo tutta la trafila, che cosa danno alla tv, stasera? Niente. Bene, guardiamola lo stesso.

(Shakespeare non l'ha mai fatto - Charles Bukowski, 1979)

venerdì 6 settembre 2013

Il resto lo trova naïf

A breve, quando il sole arretrerà di un passo, non so cosa succederà a chi continuerà ad utilizzare la macchina pur non avendone bisogno.
In ogni caso, passare in bici sotto al colosseo - con la strada praticamente deserta - senza rischiare di essere messo sotto da chi arriva in terza piena direzione circo massimo, è una ficata pazzesca.
Pareva una di quelle inutili ma speranzose domeniche ecologiche (..) ed invece era solo un venerdì qualsiasi. E ieri giovedì.
E poi boh, per tutti i fori, nonostante le orecchie nude, continuavo a cantare in loop "una mansarda in via Condotti: moquette, plafond, cassettoni. Giovani artisti e vecchie tardone si realizzano nel nobile bridge." 

Chissà cosa diavolo mi passava per la testa.

giovedì 29 agosto 2013

Il conflitto è amore

Purtroppo, durante la cena, ho visto il Tg5, conduttrice Cesara "ho fatto il lifting e adesso ho una palpebra che sbarella" Buonamici.
Ora, va beh che Silvio è un maestro della comunicazione (che, ricordiamolo, è sempre un po' come dire che Pippo Baudo è un professionsita) ma cazzo, che tristezza fare del giornalismo così.

La cassazione ha depositato nel pomeriggio le motivazione della sentenza. Nel tg, giustamente, è la notizia d'apertura. Però... va bene, lo sappiamo a chi date il lavoro (lui, al limite, vi dà lo stipendio), chiedo almeno un po' di pudore in più. Se proprio avete sepolto l'orgoglio.

Vi elenco i primi 8 (otto) minuti del TG5, roba da far impallidire il Tg4 degli anni migliori:

Partono mmagini varie (faldoni, toghe e via dicendo) durante le quali, Cesara legge le reazioni dei vari avvocati di Silvio, "sentenza incredibile", "sentenza con una motivazione inesistente", "sentenza del tutto fuorviante e totalmente sconnessa dalla realtà dei fatti". E via discorrendo. Leggendo, senza pause. O meglio, con quelle concesse dalla punteggiatura del testo, di una cosa, non so come chiamarla, che pareva un comunicato stampa mandato dalla difesa dell'imputato alla redazione del tg5.

Si prosegue con 10 secondi di dichiarazione di Epifani, noto principe del foro: "non è una sentenza basata sul nulla." Mmmh, forse meno di dieci secondi.

Subito dopo è invce la voce di Silvio in persona a preseguire, direttamente da una una registrazione rilasciata a Studio Aperto nel pomeriggio, "Sentenza allucinante: c'è un caso della democrazia in Italia: se qualcuno pensasse di eliminare il leader del primo partito italiano, ovvero il sottoscritto, e questo venisse fatto sulla base di una sentenza allucinante e fondata sul nulla ci ritroveremmo in presenza di una ferita profonda e inaccettabile per la democrazia".
E cose sentite e risentite da anni. Giusto per chiudere il "panino".

Poi si cambia e si passa all'Imu, con la dichiarazione di Silvio soddisfattissimo.

Mi alzo nervosissimo, sono solo le 20e10 e in casa mia sta già uscendo il caffè. Vado a spegnere il fornello con le mani che mi prudono tipo Trinità.

Poi mi siedo davanti al computer, riguardo questa scena e scrivo le ovvietà qui sopra.

mercoledì 28 agosto 2013

La lingua ufficiale

Ok, non sono iscritto a Twitter, però noto come sia diventato come e più di un'agenzia di stampa. Così, leggendo quotidiani, siti e blog vari, mi trovo spesso di fronte a sti cavolo di "massimo 140 caratteri".
Alla luce di questo  - e considerando che il romanesco, inteso come lingua, mi piace molto - vorrei fare un appello a tutti i twittettari (devo generelizzare per esigenza): la volete smettere di scrivere in romano? Che senso ha? Siete stucchevoli e fastidiosi. Mi state facendo odiare persino Petrolini.
E se non fosse ancora chiaro: m'avete rotto er cazzo.

Oppure, per dirla con Silvestri, "m'avete preso l'anima... de li mortacci vostra".
Grazie.

sabato 24 agosto 2013

La tristezza intelligente

Come molti di voi sanno, oltre ad essere asocialnetworkizzato (che per uno come me, coerenza a parte, è anche un clamoroso autogol), non possiedo uno smartphone.
E niente, nonostante la stima e l'amore che nutro per i miei amici e la loro intelligenza, confesso che, scena del bowling a parte, mi sono trovato in tutte le situazioni mostrate in questo video.

Allora penso che forse era meglio una volta, quando al ristorante, tra una pietanza e l'altra, rimanevo solo al tavolo a sorseggiare vino rosso mentre tutti i commensali erano fuori a fumare.

mercoledì 21 agosto 2013

We sang every song that driver knew

Rientri in macchina pensando a come sia possibile che persone a cui vuoi bene non la pensino come te su argomenti "oggettivamente" indiscutibili. Ovviamente solo nella tua testa. Poi, come per magia, dalla radio viene fuori lei, perfettamnete sincronizzata dall'accensione allo spegnimento del mezzo a motore (ogni tanto serve). E tutto sommato non mi sento più così solo.

martedì 30 luglio 2013

Daje Patrì

Considerando le volte che sono tornato a casa a piedi e ubriaco, pensavo per l'ennesima volta, che al posto di Federico, poteva esserci Cirello. E probabilmente il 99% delle (poche) persone che leggono queste pagine (da lastampa.it).

“Hanno ucciso il mio Federico
e rimetteranno la divisa
senza nemmeno pentirsi”


ANSA
Calamite sul frigorifero, una vetrinetta strapiena di oggetti, fotografie, coppe sportive e in un angolo, vicino al grande tavolo, un televisore. Rigorosamente non al plasma. Una casa normale, come tante. A cui manca una sola cosa, da 8 anni: un ragazzo. Si chiamava Federico Aldrovandi, aveva 25 anni, è stato ucciso. E’ diventato un simbolo. Ma per Patrizia Moretti, la madre era ed è soprattutto un figlio, il suo, quello che manca a questa casa.  

Oggi sarà un giorno speciale per la famiglia Aldrovandi. Questa mattina esce da carcere Paolo Forlani, l’ultimo dei 4 poliziotti condannati in via definitiva per aver ucciso Federico. Luca Pollastri, l’altro detenuto, è uscito sabato. Monica Segatto ieri ha terminato il suo periodo di domiciliari. Resta Enzo Pontani, ai domiciliari. Verrà presto liberato: ha solo iniziato la detenzione dopo gli altri. Poi, tutti e quattro, avranno finito di scontare la loro pena: 6 mesi. Loro, i poliziotti, dicono che è un’ingiustizia: gli unici in Italia, da oltre trent’anni, ad aver scontato per intero una pena per omicidio colposo (3 anni se li è mangiati l’indulto).

Lei, Patrizia Moretti, riflette: «Sei mesi per aver ucciso qualcuno è sbagliato, ingiusto, doloroso e soprattutto inaccettabile - dice - E non perché sei mesi siano pochi, anche se sarebbe ipocrita dire che non lo siano. Ma perché sei mesi non sono bastati. Se il carcere dev’essere riabilitativo, come io credo, ebbene per queste persone non lo è stato: non si sono mai pentiti, non hanno mai avuto una parola di dispiacere per la morte di Federico. Mai».

Patrizia Moretti, la sua famiglia, gli amici, hanno combattuto 8 anni per avere ragione. E domani tutto questo sarà finito. Almeno penalmente. La paura più grande, oggi, per Patrizia è che quei 4 poliziotti tornino a vestire la divisa. Cosa possibilissima, quasi automatica. La commissione di disciplina ha già emesso il suo verdetto: sei mesi di sospensione. «A fine anno, tutti torneranno in servizio. Quattro poliziotti, armati, condannati per omicidio, torneranno per le strade con un buffetto e senza che nemmeno si siano resi conto di quello che hanno fatto».

Patrizia era preparata a questo giorno. «Sapevamo che sarebbe arrivato». Ma è amaro lo stesso. «E’ la cultura delle istituzioni che deve cambiare. Questi poliziotti sono stati protetti, è evidente. E questo mi fa male. Quel che invece mi rassicura è che l’opinione pubblica ha reagito. Anche se la giustizia ha fatto il suo corso, è la condanna dell’opinione pubblica ciò che più conta. Solo così riusciremo a cambiare la cultura nelle istituzioni».

La cultura e anche qualcos’altro. Oggi l’ultimo poliziotto che ha ucciso Federico uscirà dal carcere. Dopo sei mesi. Pena scontata. Patrizia sa che potrebbe riaccadere. E allora l’opinione pubblica non basta: «Chi può, istituisca il reato di tortura. Chi non lo vorrebbe istituire ha una sola ragione: evidentemente lo perpetra. E questo non è più accettabile».