giovedì 5 luglio 2007

L'erba del vicino

"Prendete il miglior orgasmo della vostra vita, moltiplicatelo per mille…e nemmeno allora…” (Trainspotting - Danny Boyle, 1996).

E’ in scena il torneo di Wimbledon più piovoso della storia. I campi coperti e ridonati alla luce da teloni di plastica regalano l’opportunità di riempire i buchi del non gioco. Parlando di tennis ovviamente.
E la BBC riempie buchi come pochi.

Le leggende di Wimbledon, serie di puntate dedicate agli atleti che hanno fatto la storia della più antica e prestigiosa competizione di tennis. La puntata di oggi era dedicata a Pete Sampras.
Per uno come lo scrivente, teorico della sportività utopica e della capacità formativa di una qualsiasi disciplina praticata a livello agonistico, non è difficile piombare nel pianto, circondato com'è dall'infinita gamma di emozioni che uno sport può dare, specialmente se giocato uno contro uno. Ve ne racconto un paio.
Il riassunto BBC (le interviste in primo piano con luce calda di lampada sullo sfondo che si alternano alle immagini del campo) è di quelli che la RAI…ma lasciamo stare:

1.
Quarti di finale degli Open di Australia, anno 1995. La ricordo bene quella partita, stravaccato sul divano di via Valignani. Sul centrale di Melbourne Sampras incontra il connazionale Jim Courier.
Il giorno prima la notizia terribile: Tim Gullikson, allenatore e “secondo padre” di Sampras, accusa un malore. La diagnosi non lascia speranze: tumore al cervello.

- Jim Courier: “La sera prima del match andammo tutti a cena insieme, ovviamente non era mai successo che lo facessi con un mio così prossimo avversario. Ma quella volta fu diverso”.

Sampras è nervoso. Impreca passandosi continuamente le mani sul volto, sudato con gli occhi strabuzzati, come sotto acido.

- Tom Gullikson (fratello di Tim): “Pete andò sotto due set a zero, ma riuscì per disperazione a prolungare la partita fino al quinto”.

Con i nervi a pezzi e la faccia tagliata dal battito del cuore, Sampras inizia il set decisivo. Le lacrime accumulate nelle ore precedenti sfondano le dighe degli occhi. Singhiozzi e mani sulle ginocchia.

- TG: “A quel punto uno spettatore si alza dalle tribune strillando: ‘Dai Pete, vinci per il tuo coach!”.

- Jim Courier: “Da lì e cambiato tutto. Vedevo Pete che piangeva e singhiozzava infilando un ace dietro l’altro”.

Ultimo punto. Servizio vincente. Un altro. Braccia al cielo e asciugamano inadatto a nascondere emozioni ai 15mila della Rod Laver Arena.
Finirà per perdere da Agassi in finale. Ma a pochi importava.
Tim Gullikson morirà 10 mesi dopo, nel maggio 1996.

2.
Wimbledon 1997, quarti di finale: Sampras affronta il mio mito adolescenziale, il più giovane della storia a vincere sull’erba d'Inghilterra (nel 1985, a soli 17 anni) a suon di tuffi e serve&volley: Boris Becker.
Non c’è storia, seppur con i set in parità (1a1), il tre volte vincitore del torneo Boris, non sembra in grado di arginare la classe e la potenza dell’americano.

- Boris Becker: “Fino a quel momento quel campo era casa mia. Nessuno poteva battermi. Sì, ok, con Stephan (Edberg, ndr) persi due delle tre finali giocate, ma ero convinto che al massimo della forma, non c’era avversario che potesse tenermi testa. Quella partita cambiò questa percezione: capii che Pete era più forte di me”.

Boris le prova tutte, serve e segue la battuta come sa, sfodera numerosi esempi delle volée in tuffo che l’hanno reso celebre, ma ovunque mandi la palla, Pete è già lì, ad infilarlo con l’ennesimo passante. Sampras chiude l’incontro con il punteggio di 6-1; 6-7; 6-1; 6-4.
I giocatori si avvicinano a centro campo per la rituale stretta di mano. Boris sussurra qualcosa all’orecchio del rivale che rimane immobile una manciata di secondi, col sorriso dell’emozione e dell’investitura ufficiale.

- Pete Sampras: "Durante la stretta di mano Boris mi disse qualcosa. Non ricordo esattamente le parole ma fu una cosa del genere: ‘E’ stato un onore giocare con te. Io finisco qui’.

Io la penso così: se non hai mai tirato calci ad un pallone, una palla in un canestro piuttosto che oltre la rete o un montante destro in un determinato modo, con la consapevolezza di chi sa, queste sensazioni non le percepisci come potresti. Ti stupirai, piangerai, urlerai. Va bene. Ma non raggiungerai mai la vera essenza di questa follia. Non ci sono cazzi.

9 commenti:

Sor Vichi ha detto...

Bello bello 'sto post, Cire'. Ultimamente ci vizi con chicche intenditore (al retrogusto amarcord come piace a me, per di più..). Ed allora, sempre in tema di aneddoti sul TUO mito adolescenziale (per lungo tempo inarrivabile nonchè rivoluzionario, per carità: devastante sintesi della sciabola di Lendl e del fioretto di Edberg; ma per me - anche se all'epoca dei miei primi servizi in slice già anacronistico - c'era e ci potrà essere solo un uomo, benchè roso dalla follia. The Genius).
Ma tornando al tedesco pel di carota(non Montelli..): ricordo la finale persa con altro outsider magnakartoffel: tal Michael Stich. Allora, un Bum Bum Becker ruminante fiele ribattè alla punzecchiatura giornalistica sul perchè avesse abbracciato il rivale (con il quale i rapporti erano notoriamente non idilliaci): "Perchè il Central Court è casa mia. Ed è con un caloroso abbraccio che mi congedo dai miei ospiti."

Non avrà avuto il bidè, ma nello stile di questa replica ci sarebbe solo da specchiarsi.

Anonimo ha detto...

Maggio 1988.
La Sarzanese in Interregionale ha 37 punti, Il Carpi 38. Seconda e prima e solo la prima passa in C2. Ultima giornata, manco a dirlo, Sarzanese - Carpi, al "Miro Luperi".
In quella Sarzanese giocava uno della città, da vent'anni roccioso difensore, Romiti "Bistecca", libero vecchio stampo, cresciuto sotto l'ala protettiva negli anni 70' del giocatore-allenatore dei rosso-neri Corrado Orrico.
Mai un goal ufficiale nella sua carriera. Non si azzardava neanche ad avvicinarsi alla porta avversaria. Ferri da stiro al posto dei piedi, testa ovale tempismo e cinismo nulli. Lui saliva al massimo fino alla linea di centrocampo. Al 70'esimo la partita era ancora sullo 0 a 0. Il Carpi chiuso bene dietro difendeva risultato e promozione, ma ad un certo punto uno vicino a me si mise a gridare: "Duv'è te vè Bistecca? Ste dadrè, ste dadrè!".
Romiti era partito, palla al piede, fino al limite dell'area avversaria, triangolo secco con Cacciatori, entra negli undici metri ed infila il portiere con un diagonale preciso.
Andammo in serie C2, una delle giornate più belle della mia vita, e Romiti smise di giocare dopo il triplice fischio, per sempre.
Se lo incontrate ora al Bar Centrale non assomiglia più ad un calciatore, ma per noi sarà sempre il "Capitano". Ed uscire così dai giochi non è male.
Allora Cirè, vinciamolo sto Febbre da Pallone, così mi posso ritirare ed iscrivermi al golf club.
Saluti, Gallit

Anonimo ha detto...

seguo ormai assiduamente questo spazio, e -senza, si badi, volermi erigere ad una cattedra alla quale i casi della vita mi hanno già consegnato altrove- vorrei permettermi una analisi critica della parola e dello stile che qui prendono forma . si tratta di un punto assolutamente passeggero, e senza alcuna pretesa se non quella di insistere sul luogo in cui le parole si producono, di dar loro risalto ed evocare, al limite, l'intensità che è loro propria. si dovrà perdonare, pertanto, non solo la gratuità di un'operazione del genere, ma soprattutto l'arroganza che un gesto del genere porta con sé: come ogni critica, non vale che alle cose cui si riferisce, e il suo speciale soffermarsi -la sua gravità- porta sempre e solo il segno del vizio, e come un vizio va seguita: inutile, e fondamentale, come una sigaretta. o quindici. detto questo. siamo una generazione di scrittori (di scriventi, di scrivitori) che ha imparato l'alfabeto negli anni ottanta, che ha visto cadere il muro di berlino, la fucilazione di ceaucescu e la prima guerra del golfo con lo stesso umore con cui, prima del telegiornale della sera, seguiva 'l'almanacco del giorno dopo'. o forse nemmeno lo seguivamo, lo seguivano i grandi, mentre noi in cucina sgraffignavamo un ciocorì o un biancorì. cresciuti più su bukowski e kerouac che su pavese e calvino, abbiamo avuto occasione di non sentire il peso di una cultura europea (che da sartre a woolf a camus a boll ci avrebbe chiesto il conto)senza sentircene orfani. e questo potrebbe essere un bene. i loro titoli comparivano, come portate di un lento banchetto funebre a reclamare un posto dove i convitati erano partiti da tempo, e nessuno se ne accorgeva.abbiamo conosciuto pasolini, senza sapere come maneggiarlo. imbarazzati dal suo imbarazzo. negli anni novanta abbiamo letto tutti jack frusciante, e, sebbene non lo diremmo mai in pubblico, ci è piaciuto un sacco. abbiamo scoperto che esistono i giovani scrittori. (quelli arrivati appena prima, i vari decarlo, baricco, tamaro, ciascuno per sé, mostravano la loro compostezza sbiadita, il rimpianto di non esser vecchi, già dall'orlo dello scaffale della libreria). così, sull'onda di una scrittura fresca, sottile, evocativa, furbescamente transatlantica, abbiamo creato la nostra casetta, anzi, il nostro garageletterario, fatto di viaggi in treno alla fine della scuola, fascino postindustriale, denti bianchi.senza accorgercene, senza ammetterlo, siamo diventati giovani scrittori. tale è la forza della tradizione, che sorprende sempre alle spalle e recluta i suoi scribi.leggete un ultimo romanzo di brizi: c'è meno sbarbine, meno clash city rockers, ma è ancora scritto su un banco di liceo. questo non è un male in se, sia chiaro. è solo un peccato, e alungo andare una noia mortale.
io posso scrivere:"il professor ford era un tipo inquietante. nessuno di noi ha mai capito cosa si nascondesse nel suo mantello nero, nel suo passo lento, calibrato, che scandiva il marciapiede e l'intera via". oppure "il professor ford. lui sì che era un tipo speciale, cazzo. avremmo dato tutta la nostra collezione di dylan dog per scoprire cosa lo animava, con quel suo passo alla bogart, che batteva come un metronomo i marciapiedi della città. avremmo voluto saperlo. in qualunque modo." si tratterebbe, in entrambi i casi, di prosa tristemente di maniera.ma è il secondo caso a interessarci: una banalità, come il passo inquietante del professor ford, è trasmessa e resa pungente col piglio del muretto di quartiere. si vede già tutta la banda. si celebra la generazione, coi suoi miti infantili e la sua ricerca di stile, col personaggio cinematografico che crea comunità, e il compiacimento di rito, come quando al liceo eravamo in pochi ad aver visto jules e jim. tutto questo, e molto meglio, lo faceva salinger cinquant'anni fa, e nelle sue parole l'america si rivelava bambina e filastrocca, tradita e resistente. per noi, qui, non resta che una partita a bigliardino. noi scriviamo così. c'è una costellazione mitologica (gli anni ottanta, i rottami di un'epoca,l'america che è sempre l'america, la sagacia degli anni novanta, l'indipendenza dall'ideologico, patti smith-"60 anni cazzo. sessanta. fanculo a 'sti cazzo di posti a sedere"- e l'amaro del capo) e un tono, ormai collaudato, in cui tutto ciò -l'esser testimoni di una tradizione che non c'è, l'aver giocato colle sue reliquie, il non aver comunque una lira per pagare l'affitto- è diventato scuola, e noi, al nostro posto dietro i banchi, coi nostri diari, col nostro blog. a trasformare tutta la memoria in folklore, ma col dovuto distacco e savoir faire.se gli scrittori del dopoguerra italiano (solo per fare un esempio, per carità) avevano sulle loro penne il peso della resistenza e della ricostruzione, noi abbiamo il peso novantesimo minuto e la sigla di holly e benji. non possiamo credere che non sia meno compromettente, nel bene e nel male. del resto lo sappiamo già, ed è questa ambiguità carica di senso che agisce sul modo in cui i cimeli di ciò in cui siamo cresciuti continuano a stregarci. bisogna non tradirli. quello che scriviamo, come quello che abbiamo visto, chiede alle nostre parole di non fermarci sulla sua ricchezza, che alla fine -piaccia o no- è anche la nostra. e invece non facciamo (e forse non faremo altro) che mettere tutto dentro tante cornici, che appendiamo tutte intorno al nostro starle a guardare. dove la magia degli ogetti ci strega fino a farci dimenticare che anche lei è la nostra, di magia, e che passa per come parliamo, per come scriviamo.
è tutto. ammetto d'essermi lasciato prendere la mano, ma l'argomento mi stava a cuore. ringrazio tutti e in ispecie il capoblog per darmi spunto. grazie, a presto.

Anonimo ha detto...

936.
Non male, ma sopratutto non da tutti.
Ho sempre pensato di poter dire la mia in una materia tanto apparentemente semplice quanto sostanzialmente complessa eppure 936 è una cifra notevole.
Tanto di cappello caro prof. Ford.
Penso che nemmeno l'amico sorvichi, esponente di primo piano tra noi giovani cultori della materia, avrebbe potuto fare di meglio:
936 parole per non dire nulla, una vera, grande, inimitabile lezione di nullismo.
Tanto di cappello caro prof. Ford,
tanto di cappello.

nullista devoto

Anonimo ha detto...

Professor Frod,
a me pare invece che qualcosa ha detto, anzi molto, e che quello che non sembra c'entrare invece c'entra, e sta bene così.
Non l' ho mai visto con attenzione l"Almanacco del giorno dopo" ma pavlovianamente mi faceva venir fame, equazione della sua sigla con l'ora di cena.
Effettivamente in giovin età ho trascurato parecchi autori italiani, ma mi sono buttato alla lunga più sui russi che sugli americani, mah, derivazione di una famiglia, quella nella quale sono cresciuto, comunista fino al midollo, ma non per intelletto, bensì per esigenza. Ho recuperato negli ultimi anni, conoscendo meglio Pavese, Calvino, ma anche Silone e Vittorini, Soldati e Meneghello, ma a chi interessa?
Per quanto riguarda Brizzi, lo confesso, mi ha sempre fatto cagare. Ma non per snobbismo, proprio perchè non mi emoziona. Quando inizi con una definizione della pioggia padana "esangue senza nome", mi aspetto di altro dopo e che cazzo, o no?
Sulle due prose da lei presentate come esempi, che dire, il modo di scrivere è a mio giudizio secondario a quello che dici. Se dici cagate puoi scrivere bene, ma tanto non ti leggo per scelta, magari per sbaglio, e mi freghi pure con la tua sintassi e la scelta lessicale sosfisticata.
Detto questo, non credo a questo mondo siamo tutti scrittori, ma se non sei analfabeta perchè non scrivere? Sa Professor Ford. le lettere sono fonemi, le parole sono insieme di lettere e le frasi insieme di parole e così via magari si comunica qualcosa e ti fa sentire per qualche minuto più leggero, senza dover per forza aprir bocca, comporre un numero e magari usare il telefono, non trova?
Ora la devo lasciare, stasera non potrò ancora presentare il mio libro che scalerà le classifiche dell'editoria, perchè ho da servire affamati clienti, qualcuno più simpatico, qualcuno meno, e magari fossimo tutti nel mondo di Vian, dove servire è meglio di essere serviti.
Gallit.

Anonimo ha detto...

Di prima intenzione c'era la replica all'esimio Professor. Ma le suggestioni naniche (il nullista devoto, per intenderci..) erano troppo ghiotte per non cedervi.
Prescindendo dai convenevoli di circostanza ('a Nano, siamo tra di noi.. lo so da me che in materia di nullismo sono un esimio et illustre barone-luminare. Risparmiami gli allori, dunque!)
In effetti, non posso non trovare stuzzicante la critica del nullista cui supra ad un trattatello che, oserei definire non senza spocchia, onanismo accademico neanche tanto di prima mano, intorno al..bho?
Ammetto di non averci capito una ceppa se non, forse, che siamo un frullato stantio di (presunta) controcultura, pur nelle sue declinazionui nostrane, essenzialmente di matrice colonialista yankee. Ignorando tanto di più e di meglio che, a causa di quel colonialismo culturale cui supra, è rimasto in ombra. Ammesso e non concesso che questo fosse il nodo della questione, lo trovo di un'ovvietà difficilmente non condivisibile. Ma che a volte, forse, si fa bene a ribadire. Specie quando si hanno doti retorico-oratorie (altri direbbero nullistiche) d'un certo spessore.

Sor

Anonimo ha detto...

giorni un po' indaffarati. ma un minimo da dire ce l'ho. il prof. ford c'ha messo anima. allora qualcosa dentro c'è. almeno credo.
ma chi era, Casini (pierferdi) che si vantava di poter parlare ore e ore senza dire nulla?
prima o poi mi farò vivo.
per inciso, jack frusciante non l'ho letto. credo fu proprio il fatto di leggere jack in luogo di john a scazzarmi in maniera definitiva.
cy

Anonimo ha detto...

A dire la verità non ho mai pensato al “noi scriviamo così”.
Ho deciso di scrivere condividendo, di “aprire un blog” (immagino qualche anno fa se qualcuno mi avesse chiesto: - “Ti piacerebbe aprire un blog?”, - “Eeh?, che diavolo vai farneticando..?”) perché non stavo più scrivendo. Capita mano ogni tanto, acnhe se il computer è sto maledetto messenger hanno avvolto di pigrizia mente e polpastrelli.
Scrivo perché mi piace, tutto qui. Perché lo considero uno sfogarsi, un liberarsi tanto quanto tirare pugni ad un sacco anche se forse lì la fisicità prende il sopravvento. E poi capisco molte cose di me scrivendo, la timidezza va via o si nasconde. E io mi sento molto più nudo, molto più soggetto ai lividi. Sì, credo di fare un grosso lavoro su me stesso. Credo di migliorarmi, se questo vuol dire qualcosa. Diciamo che risparmio i soldi dello psicologo con una sana e nerboruta autoanalisi. Ogni tanto spendo pure ore e ore a rileggere me e le risposte di chi condivide, a riguardare le vecchie mail, le esperienze passate, le parole che adesso non scriverei mai, i litigi con le donne perché a me dal vivo vengono sempre male. In genere funziona così: si discute, dico le mie stronzate, anzi, dico le mie verità ma con parole del tutto opposte a quelle che vorrei dire e lei, giustamente, mi manda a cacare. Allora è lì che le dita volano, lei legge, e tutto torna meglio di prima. O almeno spesse volte è andata così.
E (perlomeno il mio) citare Bogart o Ciccio di Nonna Papera non è celebrare una generazione, forzare uno stile o peggio ancora compiacersi (forse al liceo sì, ma vienilo a dire al titolare della Festicciola e all’esimio frequentatore Gallit, entrambi usciti da un militare di 5 anni all’I.T.I.S.), è semplicemente scrivere. Riportare su carta le immagini che si affollano nella mente (perché bogart fuma la sigaretta molto meglio di James Dean o di Raoul Bova…scusate…) perché lo scrittore che volevo diventare era ovviamente plasmato da Kerouac (da Bukowski, da Ellis, certo: perché mai ci siamo ubriacati la prima volta?), dalla prosa spontanea che poi rimanda a Whitman e blablabla. E perché in definitiva, posso pure essere figlio di Holly e Benji, di Bem e dell’A-Team, ma sono il nipote di tante altre cose che li hanno preceduti. E i nonni insegnano parecchio, “che ve lo dico a fare” (ad esempio, non avrei ami utilizzato quest’espressione se non l’avessi sentita come geniale traduzione di Forget about it in Donnie Brasco).
Non ci trovo niente di male nel provare a inventare metafore, similitudini e ossimori che farebbero rivoltare Chandler nella tomba. Mi piace pensare che anche a lui venissero così, senza arrovellarsi troppo. Certo, le sue erano migliori, e vorrei pure vedere: quando mi verrà mai in mente di scrivere di "Una foresta di piante dalle sinistre foglie carnose e dagli steli simili a dita di morti lavate di fresco"?
Io penserei a stuzzicadenti consumati o matite spuntate, come diavolo faccio a pensare a dita di morti lavate di fresco? Scrivo. Il che mi farebbe entrare di diritto nella cerchia degli scrittori secondo la celebre descrizione che Burroughs fece di Ti-Jean (chi mi conosce sa quante volte l'ho utilizzata). Così, giusto per chiudere, anzi accostare, il cerchio intorno a quello che ho cercato malamente di dire in queste righe:

"Kerouac era uno scrittore. In altri termini, scriveva. Molti di quelli che si definiscono scrittori e che hanno i loro nomi stampati, non sono affatto scrittori e non possono scrivere – la differenza sta in questo; un toreador che si batte con un toro è differente da un cazzaro che fa delle piroette senza toro. Lo scrittore è stato là altrimenti non può scriverne. E andando là rischia di essere incornato”.

Qui non c’è alcuna voglia di mostrarsi per quello che non si è. “Sessanta anni, cazzo sessanta”, lo scrivo perché davvero vorrei arrivarci così (con quell’energia almeno) ai 60. “Fanculo a ‘sti cazzo di posti a sedere” lo scrivo perché davvero non concepisco l’idea di andarmi a vedere Patti Smith e stare seduto, come cavolo faccio a stare seduto? Me lo spiegate? Magari davanti ad un bicchierino di amaro del capo che è buono (nella sua fascia) e costa pure poco.

E ricordo i tempi in cui io e il mio fido compagno di banco paolucci ci sfidavamo a colpi di saggi dagli argomenti improbabili ognuno sul diario (o qualsiasi altra cosa in sua vece) dell’altro. Ricordo “L’evoluzione del due di coppe” (mio) o “Gli usi e i costumi dello scopettone del cesso” (suo). Questo è il mio modo di essere scrittore, ridere del non saperlo essere sul serio ma di esserlo comunque, con i miei tic (scrivo spesso “sì, insomma”, oppure ho la fissa dei periodi lunghi alternati a quelli brevi che iniziano sempre con la “e” dopo il punto), le mie ripetizioni, il mio tentare di scrivere come quello o come quell’altro con la consapevolezza di non poterlo fare semplicemente perché non sono quello nè quell’altro e che le nostre vite sono diverse e i nostri occhi pure. Intanto mi metto in gioco, perché quest’arte scalda e brucia. E fa piangere e ridere a donarla e riceverla.
Ora, come mio costume, non rileggo (anzi, a ‘sto giro correggo i refusi sapendo già di lasciarne tanti per strada), perché le confessioni, almeno da me, non si ritrattano.
E poi succede come adesso, che sono partito per scrivere qualcosa e ho buttato giù forse l’opposto. Ma quello che conta è scritto in realtà solo 23 parole prima di questa: sono partito. Eccolo qui. Il motivo per cui scrivo.
cy

Sor Vichi ha detto...

"..perché quest’arte scalda e brucia. E fa piangere e ridere a donarla e riceverla."

Diavolo d'un Cirello, che te lo dico a fare? Quel "cuore assoluto della poesia della vita macellato dai loro corpi buono da mangiare per mille anni" delle tue parole. La loro "violenza che era mitezza, mitezza che era violenza". Non me ne frega niente se è arte, mica ho cattedre (ne' oblò) da cui guardare il mondo io. Me ne frega che siano e continuino ad essere lacrime e risate in entrata ed uscita. Che siano un post-it lasciato sul frigo a ricordarci che c'è qualcuno ancora vivo, là fuori. E che allora, forse, non siamo soli. Il resto, per dirla con la mejo Gioventù Sonica, è rumore buono solo per sfottere i critici ubriachi.