mercoledì 17 ottobre 2007

Il Camoscio d'Abruzzo

Cazzo, l'ho saputo solo adesso. Amaro Taccone per tutti allora.
Vai tranquillo Vito, ora è tutta discesa.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Eh si Cirè, Vito ci ha lasciato.
Ho scritto un articolo commemorativo su sportbeat, ma mi aspettavo da tre o quattro giorni un tuo post, qui.
Ma com'è st'amaro?
Che un abruzzese ne porti una boccia a Roma che si fa il test.

Anonimo ha detto...

da www.sportbeat.tv
di Maurizio Galli

“Io non sono un corridore - mi disse - sono un lupo affamato. La lepre, il camoscio, la gazzella, sono immagini eleganti, vanno bene per Coppi: io la strada devo divorarla, so che soltanto mangiandola, una volta persino vomitandola per la grande fatica, ci scappava il mangiare vero, quello di casa...”.
Così Sergio Zavoli ricorda commosso Vito Taccone, il “Camoscio d’Abruzzo”, un uomo, prima di essere un ciclista, comunque in fuga.
Taccone non era un ciclista normale, giocava d’azzardo, sempre. Dichiarava la vittoria il giorno prima della gara, come se corresse da solo, senza preoccuparsi degli altri cento e passa corridori. Anquetil, Poulidor, Balmamion, Gimondi, Bitossi, che si chiamassero come gli pareva a loro, per Vito Taccone prima di ogni corsa vi era un solo favorito per la vittoria, lui. E se non riusciva era per colpa di qualcosa, di qualcuno ma non sua, lui comunque ci aveva provato, di sicuro. Se la strada saliva, anche se era un cavalcavia, lui partiva, si metteva in testa al gruppo, quasi a sperare che l’asfalto non si ripianasse più. Una salita infinita, così dovevano essere le corse fatte per Vito Taccone. Adesso starei qui a scrivere di altro, dei mille successi, dei Tour e dei Giri vinti, e invece poco o nulla nel palmares, a voi giudicare, ma una storia personale scritta indelebilmente a fianco a quella dei grandi del ciclismo del suo tempo, e provateci voi ad essere ricordati così, senza essere stati il migliore.
Nel 1961 esordisce tra i professionisti, ed è subito entusiasmante. Vittoria al Giro di Lombardia. Ci si aspetta da questo ragazzo una carriera incredibile, il carattere c’è, l’abnegazione pure, il temperamento anzi va limitato, ma il fisico e la resistenza non l’aiutano, e per le lunghe corse a tappe ci vogliono anche loro. Il 62’
Nel 64’ Taccone si presenta al Tour, ma si sa, i francesi sono troppo fini, non ci avevano ancora perdonato Bartali, e Vito è troppo sbruffone, le prova tutte. Pure le volate. Qualcuno si lamenta, dice che spintona e prende spazio con i gomiti. Altri si arrabbiano e si arriva alla mitica scazzottata con Fernando Manzaneque. Non parteciperà più al Tour Vito, non saranno loro a non volerlo, ma lui a non voler più loro. Il 65’ è l’anno della Milano-Torino, vittoria di prestigio, ma all’età di 25 anni sembra già un corridore bruciato. La fanno andare nel gruppo, oramai lo conoscono, e non fa più paura. Arriva comunque sesto nella classifica generale del Giro, come l’anno prima.
Nel 65’ il giro lo vinse Vittorio Adorni, un signore, uno che mai ha detto una parola fuori posto, un’opinione avventata, il primo della classe. Erano gli anni di Sergio Zavoli e del suo “Processo alla tappa”. Gli anni del boom economico, di un’Italia sempre più parte del mondo occidentale, frenetico, pronto a mitizzare e a screditare in men che non si dica chicchessia.
Per Gianni Clerici il Processo “…ha spinto fabbriche a sospendere il lavoro, maestri a interrompere la lezione, giornalisti un tempo ritenuti dignitosi a fare la danza del ventre per parteciparvi, corridori stracchi morti e magari drogati a recitare, scrittori col Premio Strega balbettare nonsensi... Processo alla tappa è un vero e proprio spettacolo, con tanto di palcoscenico, di attori protagonisti, di comparse, di drammi, di battibecchi: un copione su cui si deve improvvisare come nella commedia dell'arte, e alcune maschere a cui i corridori si adeguano: lo spaccone, il timido, il chiacchierone e il taciturno, lo smaliziato e l'ingenuo.”, e di questo circo forse il protagonista maggiore, il corridore-artista più scapestrato, meno convenzionale era lui, Vito Taccone.
Nacque anche qui il suo mito, senza la due ruote sotto il sedere, nella sua dialettica verace ed imprevedibilmente sincera da abruzzese del Fucino, di quella piana isolata in mezzo agli appennini. Gente che le cose in faccia non te le manda a dire per terzi. Adorni contro Taccone, Motta contro Taccone, ragazzi belli, educati, vincenti, del nord, di quell’Italia già sviluppata, contro di lui, il “Camoscio d’Abruzzo”. Abbiamo dovuto aspettare altri quaranta anni per vedere un ragazzo nato più a sud di Firenze vincere un giro, e guarda caso è uno che Vito a visto crescere, al quale ha consigliato di mollare le corse di un giorno per le grandi corse a tappe, guarda caso è proprio un abruzzese che come mito aveva lui, è per lui un anno intermedio, di assestamento, piazza un ottima vittoria al Giro del Piemonte e poco altro, ma era anche un’epoca diversa, nella quale i giovani venivano centellinati dagli allenatori, che non volevano spremerli troppo giovani. Ma l’abruzzese scalpita, e nel 1963 si presenta al Giro d’Italia con un arroganza insolita per un ragazzino di ventitre anni. Piazza quattro vittorie consecutive nei tapponi alpini, va in crisi, e poi vince pure una quinta tappa. Maglia verde alla fine della kermesse, cinque vittorie di tappa e arriva quarto in classifica generale, a 5’e 21’’ dal vincitore Balmamion, che non ne vinse nemmeno una di tappa. Ma il ciclismo e le grandi corse sono così, premiano la regolarità molto più spesso che l’azione travolgente. Taccone.