Mi trovavo seduto nel Centrale del Foro Italico per gli Internazionali di Tennis, quelli che ora si chiamano tristemente Master Series Roma.
In campo c’era Carlos Moya, uno degli ultimi esponenti di quella scuola spagnola vincente solo su terra rossa, portatrice sana di un tennis fatto di palle arrotate giocate a due metri dalla linea di fondo e improvvise chiusure di punto raggiunte entrando dentro al campo per sparare un “diritto anomalo” (da “circoletto rosso” direbbe il buon Tommasi) all’incrocio delle righe. Si erano ormai ritirati – o giunti a fine carriera, da pescare in un non precisato buco di mondo nel tentativo di racimolare gli ultimi spicci in qualche challenge – i vari Berasategui (l’unico tennista capace di colpire la pallina sempre con la stessa faccia della racchetta, sia nel rovescio che nel diritto, grazie ad un particolare angolo d'impugnatura a cui seguiva un assurdo movimento di polso), Sergi Bruguera (due titoli in terra di Francia per lui) o Emilio Sanchez, fratello della più famosa Arantxa. Erano loro gli iberici terraioli, il regno di Nadal era ancora lontano dal manifestarsi.
Tra un applauso di routine e gli urletti di giovani ammiratrici affascinate dalle tenebre nei suoi occhi, Moya stava portando a casa l’accesso ai quarti di finale del torneo senza troppa difficoltà.
La partita non era di quelle da ricordare, allora iniziai a distrarmi con uno dei miei passatempi preferiti:
guardare le persone fino a denudarle, isolando i comportamenti e i gesti inconsci, i sorrisi forzati, le mani sugli occhi al riparo dal sole, le maniche tirate su alla ricerca di un’abbronzatura atomica il più possibile omogenea, il punto interrogativo nei visi dei bambini che non capiscono il motivo per il quale si debba stare zitti mentre due sconosciuti si prendono a pallate, i panini con la mortazza portati da casa dentro l’alluminio, i cappelli improbabili sul cranio e tra le mani bibite fatte di gas con qualche liquido a contornarne le bollicine.
Avevo quasi completato il mio giro perlustrativo sugli spalti, quando la retina tornò sui suoi passi. A colpirla, poche file sotto la mia postazione, era stata una chioma bianca, perfetta come un parrucchino del capitano James T. Kirk.
Aspettai la fine del game, Moya lo chiuse con un ace centrale che non ammetteva repliche, poi strillai, col vocione che mi contraddistingue: “Grande Giorgio!!”.
Il bianco dei capelli fece per raggiungere l’uscita accompagnato da quella postura lenta, sempre protesa in avanti, alla ricerca di uno sguardo associabile a quel vocione prima di scomparire tra le tribune.
Lo trovò nel tempo necessario a dire “trovò”, allora alzò il braccio sinistro come in un eterno replay, agitando la mano con la timida, austera risolutezza che dimostrava ormai da anni.
Giorgio Tosatti è morto l’altro ieri a sessantanove anni. Non sono mai stato un suo ammiratore, non mi piaceva il suo modo di scrivere, troppo incentrato sui numeri e poco sul campo.
Però, a mio modo di vedere, era uno di quelli a cui quel lavoro piaceva, e si vedeva anni luce lontano. Per questo non perdevo un suo pezzo nelle pagine del Corriere: perché gli portavo rispetto.
Forse a lei non piacerà signor Tosatti, ma invece che nelle statistiche la ritroverò sempre in quella mano che faceva ciao.